Gela Antica
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Personaggi della antica Gela

 

La leggenda di ISMENE

 

Nell'antica Gela, viveva nell'acropoli una ragazza di nome Ismene, figlia di Clizia e Imeneo, nobili per discendenza familiare, tant'è che quest'ultimo era comandante di uno squadrone della cavalleria geloa.

La mamma, quando era in dolce attesa, andava ogni giorno, finché lo poté fare, nel piccolissimo tempio che si trovava un pò lontano, fuori le mura della città, a portare piccoli doni e chiedere la protezione delle dee Demetra e Kore (protettrici della maternità) per quella creatura che portava in grembo.

Essa era cresciuta tra mille attenzioni della madre, la quale le aveva trasmesso l'amore per le cose sacre, in particolare della dea Estia, protettrice del focolare domestico.

Il padre era orgoglioso e un pò geloso della bellezza di Ismene e cercava di proteggerla dalle insidie della vita. Le permetteva di uscire di casa per recarsi al tempio di Estia, ma sempre in compagnia della madre.

Cresciuta in questo sano ambiente, ella era portata a vedere solo le cose belle che la vita le potesse offrire e come tutte le ragazze della sua età si domandava che cosa gli dei le avessero riservato per l'avvenire. Con questi pensieri si addormentava ogni sera, finché una notte fece un sogno particolare.

Si trovava in aperta campagna sul greto di un fiume la cui acqua scivolava chiara e quieta verso il mare, la chiarezza della luce, complice un cielo terso nel cui azzurro si percepiva una profondità infinita, rifletteva la sua vitalità su quell'acqua dispensatrice di vita, in essa nuotavano pesci in gran quantità e trovavano sostentamento e refrigerio tantissimi animali.

Sentiva le rane gracidare.

In lontananza, al limitare della piana si stagliavano, in forma semicircolare, dei bellissimi colli tutti ammantati di verde, ne fu subito attratta da una forza misteriosa e incosciamente si mise a camminare in quella direzione.

Appena arrivata ai piedi del colle più vicino notò degli alberi giganteschi, i rami degli alberi si toccavano l'un l'altro e formavano delle volte alte e lunghissime e per terra vi erano dei camminamenti naturali.

Incuriosita, si addentrò.

Quel luogo sprigionava vita da tutte le parti, sia sugli alberi che nel sottobosco. Già, quello era un bosco.

Sentiva i richiami degli uccelli e le grida della selvaggina, ma un suono particolare la colpì e si mise ad andare dietro a quel suono. Non riusciva a capire a quale animale appartenesse quel suono, non l'aveva mai sentito ma era come attrazione fatale, non riusciva a staccarsene.

Camminò un bel po' dietro quel suono finché improvvisamente si trovò tra due alture al limitar del bosco.

Quel passo era sbarrato da un gigantesco portone, tutto in oro massiccio cosparso di pietre preziose e per battenti aveva due grossissimi diamanti. Non riusciva a tenere gli occhi aperti per lo splendore che sprigionava il portone e istintivamente alzò gli occhi verso il cielo.

Sulla sommità del portone, a fatica, lesse “valico della felicità” e guardando ancora più su notò che un arcobaleno sormontava quelle due alture, si meravigliò nel vederlo perché non ricordava di aver incontrato della pioggia durante il suo cammino, quell'arcobaleno le infondeva un senso di gioia, di pace e tranquillità.

Aspettò che il sole girasse per non essere accecata da quella sfolgorante luminosità, si avvicinò al portone, prese il battente di diamante e lo batté con grande forza. Al terzo battito il portone prese ad aprirsi.

Ciò che i suoi occhi videro era qualcosa di speciale, nessun occhio umano aveva mai visto tanta bellezza, rimase ferma e sbigottita, non riusciva a muoversi mentre gli occhi scrutavano quelle meraviglie, la mente era tutta un subbuglio di sensazioni e in quel mentre non si accorse che l'arcobaleno pian piano scendeva dal cielo per distendersi ai suoi piedi.

Risentì quel suono che l'aveva guidata in quel posto e fece qualche timido passo in avanti, a quel punto lentamente il portone si richiuse alle sue spalle e lei si trovò a camminare sopra l'arcobaleno.

Che città, le abitazioni erano fatte di marzapane e zucchero filato, sopra l'ingresso di ogni casa vi era scritto il casato a cui apparteneva in oro zecchino e le mura delle case tinte tutte con lo stesso colore ma con intensità diversa cosicché alla fine della via erano presenti tutti i colori, notò che le scale erano fatte di bambagia e le persone che vi salivano non facevano fatica perché ognuno era dotato di piccole ali ai piedi. Pensò che quelle case al primo urto rovinassero per terra ma non era cosi perché vide che gli abitanti costruivano una casa nuova per una nuova famiglia e reggeva il peso di tante persone, non vedeva materiale per costruzioni ma un grande e strano recipiente dove prendevano tutto quello che vi era di bisogno, non sporcavano niente.

Le strade erano di colore diverso una dall'altra e si domandò il perché, si avvicinò e notò che erano fatte di fiori, ogni strada un tipo di fiore diverso e la via prendeva il nome di quel fiore.

Tutti vestivano con abiti eleganti, tessuti leggeri e confortanti, le donne si distinguevano per i veli che portavano sopra gli abiti ognuna di forma e colore diverso. Dalla forma e dal colore si riconosceva la famiglia di cui facevano parte.

Camminando per la città vide uno spiazzo abbastanza grande dove si svolgeva il mercato giornaliero, vi era di tutto, dalle stoffe ai ricami, dai manufatti artigianali ai prodotti della terra e tutti erano intenti a mostrare e promuovere i prodotti delle loro fatiche, ogni cosa costava niente, in una parte dello spiazzo volteggiavano abilissime danzatrici al suono di bravissimi suonatori di flauti, pifferi e particolarissimi tamburini di ogni forma e grandezza.

Com'è strano e bello questo posto pensava Ismene e mentre stava per riavviarsi le si affiancò una biga trainata da due cavalli bianchi, l'auriga fermò il mezzo, per conoscere questa fanciulla che sembrava non essere del posto, e la invitò a salire sulla biga vicino a lui. Lei dopo un attimo di riflessione sali e la biga prese a muoversi prima al passo e poi ad un buon trotto. L'auriga cercò di sapere chi fosse quella ragazza ma lei non rispondeva, era tutta presa ad ammirare i luoghi cui attraversava.

L'auriga rimandò a dopo le presentazioni e si mise a descrivere ciò che incontravano, i palazzi pubblici, le residenze dei personaggi che governavano la città, i giardini, le fontane e tante altre cose ancora. Tutto ciò che era pubblico era impreziosito con dei fregi. I palazzi pubblici, si distinguevano per i monumenti e le decorazioni in oro, argento e pietre preziose, quelle dei governatori, i giardini e le fontane per i monili d'argento e alberi d'alto fusto tutt'intorno.

Ismene non poté farne a meno di dire al suo cavaliere che in quella città tutto le sembrava strano, oh no!, gli rispose l'auriga qui è tutto naturale, questa è la città della felicità, qui non esiste la rivalità non è di quì la gelosia e la bramosia.

Spiegando, descrivendo, parlando e discutendo l'auriga non si accorse che dopo l'ultima curva l'arcobaleno sotto di loro non c'era più e la biga prese a correre su un piano sterrato irto di sassi e avvallamenti che la faceva sobbalzare finché una ruota prese un sasso più grosso, la biga volò in alto e poi ricadendo si rovesciò più volte. Ismene dopo la caduta perse i sensi. Quando riavvenne vide che l'auriga era ancora per terra e non si muoveva, si avvicinò e notò che un fiotto di sangue gli usciva dalle narici. Cerco di farlo rinvenire, provò ad alzarlo ma inutilmente, non dava segni di vita. Disperata si guardò tutt'intorno per vedere se c'era qualcuno a cui poter chiedere aiuto.

Erano soli.

Ma non disperava, cercò di alzarsi per correre a chiedere aiuto ma non poté, le gambe che fino ad un istante prima erano agili come quelle di una gazzella non erano in grado di fare più un passo, non li sentiva più. Allora tentò di gridare per farsi sentire da qualcuno, guardò indietro, la bellissima città che aveva visto non c'era più.

D'un tratto si accorse che l'orizzonte si copriva di nero, pensò che stava per avvicinarsi un maltempo ma quando quel cielo nero fu su di lei un brivido le passo per tutto il corpo, quel nero che oscurava il cielo non erano nubi ma uccelli, erano avvoltoi che scendevano nella sua direzione.

Spaventata cercò di fuggire, inutilmente, non era in grado di muoversi.

Quando gli avvoltoi furono sopra la sua testa le usci dalla bocca un fortissimo grido di raccapriccio e si svegliò.

Era spaventata e sudata.

Raccontò tutto alla mamma di quel strano sogno.

Sono sogni di fanciulla la rassicurò la mamma mentre l'abbracciava e l'accarezzava, a questi sogni non si deve dare importanza, quando stasera viene papà abbraccialo forte e vedrai che con il suo calore e la sua forza ti farà dimenticare tutto questo.

Quell'abbraccio non avvenne mai.

L'aria fu squarciata da imprevisti squilli di corni e dai suoni dei gong, davano l'allarme del pericolo imminente.

La città si trovò sotto assedio.

Lo squadrone di Imeneo era in prima linea ad affrontare il nemico in campo aperto e si coprì di gloria ma il prezzo di tanta gloria fu troppo alto, lo squadrone perse in battaglia un gran numero di cavalieri geloi e con essi il suo comandante.

Durante l'assedio Clizia ed Ismene non si risparmiarono, Clizia stava sopra le mura ad aiutare gli anziani a preparare le armi per rifornire l'esercito geloo, Ismene si prendeva cura dei feriti e l'assisteva con grande dedizione. Le mura della città erano diventate la loro seconda casa. Clizia mentre era sopra le mura ad incitare i soldati fu colpita da una freccia nemica alla gola e Ismene si trovò sola.

Rifiutò di andare con le altre donne in un luogo sicuro, dormiva pochissimo, oltre a curare i feriti, sostituì la madre sopra le mura. Una notte fu organizzato un viaggio per mettere in salvo i ragazzi, a guidare la spedizione oltre ai soldati vi era un'anziana signora che portava in braccio un bimbo, arrivati sul litorale stavano per salire su una barca quando Ismene notò quel bimbo e ne fu attratta, si avvicinò e domandò all'anziana signora chi erano i genitori di quel bimbo e come si chiamava, l'anziana signora rispose di non conoscere i genitori ma di sapere come si chiamava il bimbo.

Si chiamava Euclide.

Quei ragazzi che tornavano in Grecia erano una speranza, per un domani non lontano, quando la vita sarebbe tornata alla normalità, li avrebbe visti ritornare per dare lustro alla loro terra, ma non tutti ritornarono.

Le incursioni nemiche si erano fatte sempre più frequenti e riuscirono a conquistarsi un passaggio tra le mura ed entrare in città. Il campo dei feriti era proprio vicino a quel passaggio ed Ismene li ebbe subito di fronte. Così trovò la morte Ismene, trafitta da una lancia nemica al cuore mentre stringeva in mano un pietra con cui cercava di colpire il nemico per difendere la sua Patria. L'ombra dei suoi cari l'avvolse formando uno speciale scudo, invisibile, attorno a lei affinché gli invasori non ne facessero scempio. La città, anche se ferita, riuscì a salvarsi ed i superstiti non dimenticarono quella ragazza. Quando gli anziani raccontavano le gesta delle donne geloe, narravano di Ismene, simbolo della bellezza, delicatezza, altruismo, coraggio, ardimento e purezza di sentimenti.

Fonte: Salvatore Ventura