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Alcuni cenni su Gela

 


Lo stemma

 

Lo stemma araldico del Comune di Gela è costituito da un’aquila che poggia le zampe su due colonne con una corona sveva sulla testa e il tutto su uno sfondo di color rosso cremisi. Sicuramente questo stemma risale alla fondazione di Terranova, avvenuta nel 1233 ad opera di Federico II di Svevia. A partire  da un periodo non molto lontano, forse verso la fine della prima metà del secolo scorso, in molte rappresentazioni lo stemma, però, fu realizzato spesso con uno sfondo bicolore, il giallo e il rosso vermiglione, colori che non hanno avuto una posizione definita, infatti, in alcuni manifesti e bandiere essi compaiono con una ripartizione di tipo partito, in altri di tipo trinciato, inoltre, questi due colori separatamente, anche oggi, non vengono posti sempre in corrispondenza di uno stesso lato dello stemma.
Andiamo a vedere il significato dei simboli. La figura dell’aquila si riferisce a quella sveva, mentre le due colonne, in particolare, rappresentano il simbolo di questa città, in quando in epoca federiciana dovevano ancora esistere nella nostra zona delle colonne, avanzi di templi greci. Pertanto, i simboli dello stemma del nostro Comune rappresentano in definitiva l’aquila sveva che regna sulla città delle colonne.
Lo stemma originario, fino ai primi del Novecento, veniva raffigurato con il corpo del rapace più snellito di quello attuale, inoltre, le colonne erano disegnate in forma più esile. Intorno al 1910 le stesse colonne subirono una prima modificazione: i loro fusti vennero raffigurati più consistenti e i capitelli originari dorici, inoltre, vennero sostituiti con altri in stile composito, tipo ionico-corinzio.
Negli anni ’50 si ebbero ancora altre variazioni, le ultime, che portarono così la figura dello stemma a quella attuale e cioè con l’aquila più robusta ed elegante e la corona più elaborata. Inoltre, sulle colonne furono disegnate delle scanalature su copia della Colonna Dorica che ancora oggi possiamo ammirare nel parco delle Rimembranze. Infine, tutta questa nuova composizione dello stemma fu inserita all’interno di una scudo di tipo sannitico.

Fonte: Nuccio Mulè

 
 
Antifemo di Rodi fondatore di Gela Entimo di Creta fondatore di Gela
 

Gela

Il territorio circostante la città risulta abitato già a partire dal Neolitico (V millennio a.C.). Nella successiva età del Rame, i segni della presenza dell'uomo aumentarono notevolmente come dimostrato dalla scoperta di tombe a forno (tipologia molto rappresentativa del periodo in Sicilia) con i relativi corredi funerari (ammirabili nel museo della città).
Comunque è nel millennio seguente, età del Bronzo antico (2200-1450 a.C.), che in questi luoghi (zona dell'acropoli greca e delle colline circostanti la città) come nel resto dell'isola si riscontrano numerosi insediamenti riconducibili quasi sempre al tipo castellucciano (comunità dalle caratteristiche agricolo-pastorali con contatti commerciali con il mondo esterno, maltese ed egeo in particolare). « ...  E poi i campi geloi, e l'immane Gela, così detta dal nome del fiume ... ». Così appaiono a Enea e compagni la città e il suo circondario e queste sono le parole che Virgilio fa dire all'eroe troiano nel 111 libro dell'Eneide.

------------------------------------------------------------------------------------Fu fondata nel 689 a. C. (44 anni dopo Siracusa) da una colonia formata da Rodiesi, comandati da Antifemo, e da Cretesi guidati da Entimo. Questi, attirati dalla bellezza del luogo, vi si accamparono e fondarono la città, allora abitata da nuclei di indigeni, i Siculi, e la chiamarono Gela dal nome del fiume che vi scorreva. Antifemo ed Entimo incontrarono l'ostilità degli abitanti del luogo, ma in breve tempo riuscirono a sopraffarli e a cacciarli sulle montagne. La città di Gela cominciò a svilupparsi tanto che, dopo appena un secolo, una colonia di geloi comandati da Pistilo e Aristomo si spostò sul fiume Akragas e fondò nel 580 a. C. la città di Agrigento. Divenuta potente, Gela iniziò una politica espansionistica, ma nel VI sec.a.C. avvenne, per motivi economici, la secessione della plebe che, abbandonata la città, si recò nella vicina Maktorion (Butera o Mazzarino?). Teline, Gran Sacerdote e Pontefice del culto di Cerere, riuscì a sedare il contrasto e a far rientrare i fuggiaschi a Gela. Dai primi due secoli di vita dalla sua fondazione nulla si sa di preciso dell'ordinamento politico e amministrativo della città. Il primo tiranno di Gela di cui si ha notizia fu Cleandro che regnò dal 505 al 498 a.C. Dopo la sua morte, avvenuta per mano di Sabello, cittadino gelese, il potere passò al fratello Ippocrate, il quale continuò la politica espansionistica sottomettendo le città di Callipoli, Leontini, Nasso, Ergezio e Zancle (Messina). In tal modo Ippocrate realizzò il suo progetto di fondare uno stato forte di cui Gela divenne la metropoli. Soltanto Siracusa era scampata al pericolo della dominazione geloa grazie all'aiuto dei Corinzi dei Corcioresi, ma la sua conquista era di vitale importanza per Ippocrate che avrebbe avuto la possibilità di controllare i territori conquistati e, per la sua presenza a Siracusa di un florido porto, si sarebbe assicurato le comunicazioni con l'oriente dove intratteneva scambi commerciali, mentre il porto di Messina, allora Zancle gli assicurava il controllo sul movimento delle navi. L'occasione per muovere guerra ai siracusani si presentò quando Camarina, colonia di Siracusa, si ribellò alla madrepatria, ma l'esercito camarinese fu sconfitto e fatto prigioniero. Ippocrate allora prese lo spunto dal fatto che dell'esercito sconfitto facevano parte dei geloi, mosse guerra a Siracusa e, dopo avere sconfitto i siracusani presso il fiume Eloro, cinse d'assedio la città che sarebbe capitolata se non fossero intervenuti Corinto e Corcira a fare da pacieri. Ippocrate accettò le condizioni proposte e, in cambio di Camarina, rilasciò i prigionieri e abbandonò Siracusa. Mentre Ippocrate era impegnato nella guerra contro Siracusa, i Siculi, che non avevano sopportato l'usurpazione delle loro terre da parte dorica, minacciarono di rompere il patto d'alleanza con Gela, costringendo il tiranno ad attaccarli nella loro roccaforte di Ibla dove, a causa della molte ferite, perse la vita.
Alla morte di Ippocrate (491) prese il potere Gelone che continuò la politica espansionistica del predecessore. Nel 484 a. C. conquistò Siracusa, dove si trasferì, lasciando Gela nelle mani del fratello Gerone. Intanto Terone, tiranno di Agrigento, che mirava ad ingrandire il suo stato, conquistò Himera nel 480 a. C. Terillo, signore di Himera, chiamò in suo aiuto i Cartaginesi, che, guidati da Amilcare, accorsero con un forte esercito e assediarono la città. Nel frattempo, Terone, avvertito il pericolo di una sconfitta, chiese aiuto alle città di Gela e di Siracusa. Gelone, allora, riunito un esercito di cinquemila uomini, insieme ai fratelli Gerone, Polizelo e Trasibulo, partì alla volta di Himera. Con una geniale mossa strategica, fece penetrare un drappello di suoi uomini nell'accampamento cartaginese, che incendiarono le navi nemiche e fecero entrare il grosso dell'esercito siceliota. Durante la cruenta battaglia che ne seguì perse la vita il condottiero cartaginese Amilcare.
In breve tempo l'esercito cartaginese, rimasto senza guida, fu sconfitto. Le condizioni di pace offerte dal vincitore Gelone furono piuttosto miti. Egli impose il pagamento delle spese di guerra e l'abolizione dei sacrifici umani nei loro riti religiosi. Alla morte di Gelone, avvenuta nel 478 a.C., il fratello Gerone abbandonò, a sua volta, il governo di Gela per prendere possesso di Siracusa e lasciò la città geloa a Polizelo. Durante questo periodo della sua storia non si hanno più notizie certe; si pensa tuttavia che Gela si sia liberata della tirannide di Polizelo e si sia data un governo democratico. Intanto i siracusani cacciarono Trasibulo che, dopo la morte di Gerone, tiranneggiava la città, e molti geloi tornarono nella madre patria che riacquistò la floridezza di un tempo. Nel 424 si affacciarono sulla scena gli Ateniesi che intendevano conquistare la Sicilia, e pertanto Gela si mise alla testa delle città sicule e ricacciò gli Ateniesi. Ma il pericolo non era scongiurato in quanto l'isola era tormentata da lotte cittadine per il sopravvento per cui si rese necessario riunire a Gela i rappresentanti delle città sicule e fare un trattato di pace con lo scopo di unificare i popoli della Sicilia contro il pericolo straniero e in questa occasione il siracusano Ermocrate pronunciò la sua mirabile orazione concludendo col grido: "Noi non siamo né Joni né Dari, noi siamo Siciliani! La Sicilia deve essere dei Sicelioti, stretti in un unico patto d'alleanza".
Nel 406 a.C. i Cartaginesi conquistarono Agrigento e la rasero al suolo e Gela, non volendo fare la stessa fine, chiese aiuto a Dionigi tiranno di Siracusa che, per ragioni non conosciute, non arrivò in tempo a dare man forte al popolo di Gela. Pertanto, dopo alterne vicende che videro atti di eroismo anche di donne e bambini. la città fu presa e rasa al suolo dopo essere stata depredata di tutti i tesori (405 a.C.). I cittadini superstiti intanto si erano rifugiati a Siracusa. Nel 397 a. C. tornarono in patria e si unirono a Dionigi II nella lotta per la liberazione e nel 383 ebbero riconosciuta la loro indipendenza. Dal 338 al 317 Gela sentì l'influenza benefica di Timoleonte, tiranno di Siracusa. Sotto il governo di Agatocle (317-289 a.C.) fu nuovamente angosciata e combattuta da lotte interne tra il popolo e gli aristocratici che non sopportavano il governo democratico. Quando nel 311 i Cartaginesi ritornarono nella città trovarono il popolo debilitato e, aiutati dagli aristocratici, la occuparono nuovamente e la saccheggiarono uccidendo un gran numero di cittadini. Gela subì un'ulteriore distruzione da parte di Finzia, tiranno agrigentino, il quale, avendo fondato la città di Finziade (Licata), per paura che questa non potesse svilupparsi a causa della vicinanza con Gela da cui distava soltanto 30 Km. occupò la città di Gela e con ferocia fece abbattere le mura e i palazzi. portando i materiali demoliti nella nuova città. Dopo questa immane distruzione, per diversi secoli, non si parlò più di Gela.
Sotto i Romani di Gela esisteva ancora un piccolo nucleo. Ne parlano infatti Virgilio (che cita i "Campi Geloi" nell'Eneide), Plinio, Cicerone e Strabone. Dopo i Romani in Sicilia e quindi anche a Gela si stabilirono i Bizantini, ma della città non si hanno notizie importanti. In seguito fu occupata dagli Arabi che la chiamarono "Città delle colonne" e il fiume "Fiume delle colonne" per le numerose colonne sparse nel suo territorio.

 

La storia medievale di Terranova presenta ancora molti periodi oscuri perché l’attenzione degli studiosi di storia patria si è sempre appuntata soprattutto sulla Gela greca, come se solo il mondo classico potesse farci conoscere la storia della nostra città.
Fino a qualche tempo fa, facevamo ciò che gli umanisti fecero nel Rinascimento, cioè fare un salto di secoli perché il Medioevo era il periodo dell’oscurantismo e quindi da dimenticare o, comunque, da sottovalutare.
La storia gloriosa di Gela aveva fine con la distruzione di essa ad opera di Finzia e dei Mamenrtini nel 282 a.c. circa. I nostri studiosi non sono d’accordo con questa linea spartiacque, perché ritengono che se anche molti Geloi emigrarono in Gela-Finzia, alcuni gruppi sono rimasti e nel periodo romano i vari casali sono stati abitati da Geloi che non hanno dimenticato la loro madre-patria, come si è accertato attraverso scavi recenti. Dopo la distruzione cartaginese del 405 a.c.. Gela continuò ad essere abitata prima che Timoleonte la ripopolasse con coloni provenienti da Ceo..
Basta osservare ciò che di medievale ancora resiste in questa città e nel suo territorio, ancora non sufficientemente studiato. Chi di noi non ha sentito parlare del Castelluccio? La sua costruzione da molti viene data per volontà di Federico II, ma non è così.
La menzione più antica del Castelluccio è contenuta in un atto di donazione del 1143 con il quale Simone, Conte di Butera, dona all’abate di San Nicolò l’Arena di Catania alcune terre site nell’area meridionale della contea ed il Castelluccio viene citato come termine di confine all’estremità orientale dei beni assegnati al monastero. Quindi nel 1143 il Castelluccio già esisteva, cosi come si ritiene che il contrada Grotticelle, ove esiste una necropoli, indica senz’altro che vi erano degli insediamenti. Si ritiene dunque che la città ed il suo territorio non siano mai stati del tutto abbandonati.

 

Nel 1230 Federico Il di Svevia fece ricostruire, a ovest dell'antico abitato. la città che volle chiamare Terranova e la fortificò con un'ampia cerchia muraria. Terranova fu demaniale fino al 1369, quando il re Federico III la donò a Manfredi Chiaramonte, ma già la città si era messa spontaneamente sotto la tutela della potente famiglia. La situazione non piacque ad Artale Aragona che lo cinse d'assedio e, dopo una strenua difesa la città si consegnò alle truppe dell'Aragona. La famiglia Chiaramonte tenne il governo di Terranova fino al 1392 quando l'ultimo discendente, Andrea, fu giustiziato per essersi messo a capo della congiura dei baroni siciliani contro re Martino e i suoi beni furono confiscati. La città fu affidata a Pietro de Planellis fino al 1401 anno in cui re Martino I la concesse a Ludovico de Rayadello al quale succedette la nipote Giovanna sposa di Arnaldo Villademanio. Nel 1432 donna Beatrice, vedova di Gabriele de Faulo acquistò la città di Terranova e la donò alla figlia Costanza che la portò in dote al marito Berengario de Cruillas. Quindi, Beatrice, figlia di Costanza con il marito Giovanni d'Aragona nel 1453 entrarono in possesso della città.
Nel 1507 il loro figliolo Carlo acquistò per sé e per i suoi discendenti il "mero e misto impero". A Carlo succedette la figlia Antonia che portò in dote la città allo sposo Giovanni Tagliavia Aragona che nel 1530 chiese e ottenne dal re il titolo di marchese di Terranova. Nel 1561 il figlio Carlo ricevette il titolo di duca. La famiglia Terranova Aragona tenne il possesso della città fino al 1640 fino a quando cioè la figlia di Diego Tagliavia Aragona, Giovanna, la portò in dote al marito Ettore Pignatelli la cui famiglia la tenne fino all'abolizione della feudalità in Sicilia (1812). Nel 1799 la città di Terranova insorgeva insieme ad altri paesi siciliani al grido di: "Morte ai giacobini". Durante la rivolta popolare vennero uccisi alcuni cittadini, ma i responsabili vennero facilmente identificati e impiccati. Nel 1927 la città riprese il suo glorioso nome: Gela. Durante la seconda grande guerra fu crudelmente bombardata dagli alleati che ne occuparono il porto e la cittadina.

 

Gela dista 77 Km. da Agrigento, 82 Km. da Caltanissetta, alla cui provincia appartiene, 100 Km. da Catania, 76 Km. da Enna, 203 Km. da Messina, 216 Km. da Palermo, 60 Km. da Ragusa, 135 Km. da Siracusa, 250 Km. da Trapani.
Il comune conta 76.520 abitanti e ha una superficie di 27.737 ettari per una densità abitativa di 276 abitanti per chilometro quadrato.

Sorge in una zona pianeggiante litoranea, posta a 45 metri sopra il livello del mare.
L'economia è sostenuta da un grosso complesso petrolchimico, numerosi sono anche i giacimenti di petrolio presenti nel sottosuolo. Notevole importanza ha anche l'agricotura, con particolare riferimento alla produzione di primizie ortofrutticole, cereali e carciofi. È presente inoltre un grosso mercato ittico.

Fonte: Nuccio Mulè

 

Cittadini illustri dell'antica Gela

Sicuramente, come documentato dai nostri validi studiosi ricercatori, Euclide, insigne scienziato, inventore della geometria che ancora oggi si studia in tutto il mondo, è nato a Gela nel 365 A.C. e ha girato il mondo allora conosciuto per rispondere agli inviti che riceveva, morì nel 275 A.C.

 
 

Eschilo, nato a Eluisei in Grecia, visse gli ultimi suoi anni a Gela scrivendo delle tragedie, mori a Gela nel 456 A.C. La leggenda racconta che Eschilo fù colpito a morte da una tartaruga lasciata cadere da un’aquila in volo. Eschilo volle sulla sua tomba la seguente iscrizione che si vuole composta dal poeta stesso.

"Questo sepolcro racchiude Eschilo, figlio di Eufrorione, Ateniese, morto a Gela ricca di messi; il suo valore possono attestarlo il famoso bosco di Maratona e il Persiano dalle folte chiome, che ne fece la prova."

 

Archestrato di Gela

 

E' il primo scrittore (IV sec. a.C.), che dell’arte gastronomica abbia fatto argomento di versi in un poema intitolato “Hedypàtheia” (le delizie della vita).
Di questo componimento, scritto in forma epica arieggiante lo stile di Omero, si conosce solo qualche frammento citato da Ateneo.
Nel suo poema Archestrato racconta come abbia percorso tutta la terra e tutti i mari per conoscere quali siano le migliori vivande e i vini più pregiati. Tratta inoltre del pane, dei pesci, della selvaggina, della maniera di produrre e di conservare il vino. Soprattutto ai pesci dedica la propria attenzione, indicandone le qualità migliori, i luoghi da dove provengono, le specie più rinomate e le stagioni in cui è opportuno catturarli. Non a caso Archestrato, se non discepolo, è contemporaneo di Epicureo e per le delizie della mensa presenta un vero trasporto. A suo parere, l’uomo saggio che non voleva incorrere nell’ira degli Dei doveva provvedersi di cibi a peso d’oro, ricorrendo anche al furto e rischiando persino la morte.
Della stessa materia di Archestrato tratta la satira IV del libro II di Orazio (I sec. d.C.), e tracce dell’Hedypàtheia affiorano nel costume gastronomico di Roma antica e indirettamente anche nell’opera di Apicio.
In Sicilia, l' arte culinaria, per opera di Archestrato, si era elevata quasi a dignità di scienza ."

 

 

La poesia di Giuseppe Corrao - Coppili e
ccappeddra 'i Terranova

Stralcio

Oh, beddra Terranova
marinara,
fatta di bbastimenta e ccanalara,
di paranzi, caicca e
ddi scialè,
di mari senza mbacchiu
e ddi cullè!...
Unna si cchiù, Terranova
di paisi.
mmiria di viscarani e
mmazzarinisi,
di lingua a strascinuni e
pprucissioni,
di mmurmura e ddi scuti
ccu ntinzioni
e cchiddra cchiù pureddra
de campagni,
ricca di taggharini e ddi
lasagni?...
Di maragghia, di scecca
ccu ddri muli
ppi ttravagghiari fin'a
coddra ‘i suli?...
Ora tu ssciurni sordi e
ssi ssatrusa,
e ll'arma to si fici assai
‘rrugnusa…
E un ci su'cchiù coppili
e cappeddra
e un penni cchiù a Matrici
la taleddra!...
Ora di patri parrai e di
Diu,
pittanti, si, ddivintau un
bbabbiu!
Unna ti voti e sboti viri
curi:
i testi scumpareru cco
Signuri.
Un si rraggiuna cchiù e
a ttutti l'uri
tu viri cca e ddra fimmini
nuri.
E bbiri picciuttazzi a la
campia
ppi spasciari ogni ccosa
ccu bbalia.

 

La canzone di Ottavio Duchetta

Sirenu

La Cicala sentu cantari
E lu mari ssrinari
Lu celu all'imbruniri
Duna lu sonnu a li criaturi

Iu mi sentu i rispirari
L'aria cca ni fa ricriari
Lu ventu da marina
Cca ni fa nfatturari

(Rit.) Sirenu è Gela
Accussi la sonnu
accussi la sentu
accussi la vogghiu

Sirenu è Gela
li manu e li ioca
accussi la sentu
accussi la vogghiu

 Aperti li barcuna
l'azzolu a li linzola
li vasi a li carizzi
pè strati li biddizzi

li sciura a li curtigghi
ppe strati i picciriddi
li mammi a li criatura
li giuvini e li sò amura

 

 

Poesia di Paolo Campisi

Comu la vurpi

'Na vurpi affamatizza
sutta 'na mpriulata
vidennu la racina pinnuliari,
si muzzichia tutta
ca na la po pigghiari.

Lu stissu sugnu ju ccu lu me amuri:
ca nun putennu avilla ntra li vrazza,
cci lassu l'occhi supra la tirrazza.