1943
Foto 1920
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La recensione di questo libro è stata riportata dalla Rivista Militare N. 3 del Maggio-Giugno 2009

 

La battaglia di Gela

 

Dopo la Campagna di Sicilia, avvenuta nel luglio-agosto del 1943, si è largamente diffusa la tesi secondo la quale l'Esercito aveva “tradito”. Tesi ripresa da quasi tutti gli autori italiani e stranieri, secondo i quali i soldati italiani si erano arresi agli Alleati senza colpo ferire o quasi. La ricerca dell'autore, basata su materiale dell'Archivio dell'Ufficio Storico dello Stato Maggiore Esercito, nonché su testimonianze di civili del luogo, mira a confutare tale tesi, in quanto nel settore specificatamente trattato nell'opera le diserzioni furono una parte insignificante.

I fatti. Nella notte tra il 9 e 10 luglio 1943 gli Alleati attuarono il più grande sbarco anfibio mai tentato fino ad allora, impiegando nel solo settore di costa compreso tra la città di Gela e Scoglitti (Sicilia sud-orientale), 580 navi da guerra e da sbarco oltre a 1124 mezzi anfibi, che sbarcarono due intere Divisioni (la 1^ a Gela e la 45^ a Scoglitti, per un totale di circa 40.000 uomini suddivisi in circa 27 battaglioni).

L'urto iniziale fu sostenuto da 5 battaglioni delle unità costiere (XVIII Brigata costiera), che opposero una strenua resistenza, ma prima dell'alba furono ridotti al silenzio dal fuoco delle artiglierie navali. La reazione dei Comandi italiani fu immediata. Già alle 05.00 del 10 luglio il Gruppo mobile “E”, di stanza a Niscemi, mosse al contrattacco; riuscì a penetrare fin dentro l'abitato di Gela, ma intorno alle 11.00, a causa del fuoco delle artiglierie navali subì forti perdite e dovette ripiegare sulle posizioni di Ponte Olivo. La mattina dell'11 luglio, unitamente alla Divisione H. Goering, mosse al contrattacco la Divisione Livorno al completo. Alle 11.00 gli uomini della Livorno erano giunti alle porte di Gela, ma ancora una volta l'intervento dell'artiglieria navale fu decisivo. I Reparti furono decimati, per cui dovettero ripiegare sulle posizioni di partenza. In due giorni di combattimento la sola Divisione Livorno aveva perso, tra morti feriti e dispersi, circa 7.214 uomini su 11.400 effettivi, senza considerare le perdite dei Reparti costieri, che ammontavano a circa il 50% degli effettivi.

Dalla lettura di quest'opera emerge la grande capacità dell'autore di mettere in risalto, oltre alla condotta delle operazioni dei Reparti italiani, l'umanità e spesso anche qualche giustificata debolezza dei soldati italiani, che nonostante avessero la netta sensazione di aver perso ancora prima di aver iniziato a combattere compirono numerosi atti di eroismo, spesso sconosciuti ai più.

Ricordare questi eventi e tramandarli alle generazioni future, é un dovere morale per onorare la memoria di quei soldati, spesso dimenticati, che sacrificarono la propria vita per mantenere fede al giuramento prestato, difendere la Patria.

 
Il Maggiore Giovanni Iacono autore del libro sulla battaglia di Gela
 
Il contrattacco delle Forze Italiane
 
Tavola n. 1
 
Bruno Causin - Reduce della Battaglia di Gela
 

Intervista ad un reduce della battaglia di Gela

Questa intervista è stata effettuata da un familare del Maggiore Giovanni Iacono al Signor Bruno Causin il 25 di gennaio 2009, ed è stata pubblicata sull'edizione di Ragusa del Giornale di Sicilia del 10 luglio 2009, nonchè sui siti Acateweb e touribleo. 

L'Associazione LAMBA DORIA, ha ionoltrato la proposta di concessione della cittadinanza onoraria al Sig. Causin, al Sindaco di Niscemi in data 01 dicembre 2010.

Un altro pezzo di storia è stato recuperato grazie all'Associazione culturale “Lamba Doria”, di cui fa parte il Magg. Iacono, di origini acatesi, autore del libro “Gela. Le operazioni dei reparti italiani nella battaglia del 10- 11 luglio 1943”, rappresentante dell'associazione per la provincia di Ragusa, nel corso delle sue ricerche ha avuto modo di raccogliere la testimonianza del Signor Causin Bruno, Caporale Maggiore artigliere, classe 1921, ultimo reduce del glorioso Gruppo mobile “E”, che combatte' eroicamente nella piana di Gela il 10 e l'11 luglio 1943. Questa testimonianza contribuisce ulteriormente a far luce, se ce ne fosse ancora bisogno, sul comportamento tenuto dalla stragrande maggioranza dei soldati italiani durante lo sbarco americano.

D.: Sig. Causin quando fu chiamato alle armi?

R.: Sono stato arruolato il 10 gennaio 1941, a Ferrara presso il 2° Reggimento artiglieria celere. Avevo l'incarico di puntatore, ma successivamente seguii anche il corso da capo pezzo, da autista, il corso celere sulle munizioni ed il corso da infermiere.

D.: nel luglio del '43, lei a che reparto apparteneva?

R.: Appartenevo al 54° Reggimento di artiglieria della Divisione Napoli, piu precisamente alla 9^ batteria da 75\18, aggregata al Gruppo Mobile “E” della XVIII Brigata costiera, che era composto oltre che da noi, da una compagnia di carri armati, una compagnia di fanteria ed una di bersaglieri..

D.: dove eravate dislocati?

R.: Ci trovavamo in Sicilia dal settembre del 1941. Nel mese di marzo del '43 ci eravamo spostati a Niscemi. Qui eravamo alloggiati nelle scuole; si dormiva sui letti a castello, due sotto e due sopra. Durante tale periodo, si faceva addestramento tutti i giorni. Nei 5-6 giorni prima dello sbarco, gli americani bombardarono tutta la piana di Gela; ricordo il grano che ricopriva l'intera pianura che prendeva fuoco, altro che i fuochi che fanno vedere da Venezia. Là vedevi una cosa che sembrava inimmaginabile, il frumento in luglio che bruciava…., un mucchio di qua uno di là, tutti sti fuochi, su tutta la pianura.

D.: cosa successe la notte del 9 luglio del '43?

R.: All'epoca io ero Caporale. Il Comandante della batteria Ten. Francesco Marchegiani verso le 8.30 di sera ci chiamò alla fureria e ci disse: ”Guardate è giunta l'ora. Le chiacchiere, relative ad un gruppo di navi dirette in Sicilia, sono vere. Uno di questi gruppi sta per arrivare proprio qui a Gela. Noi siamo pronti, andate all'accampamento ed aspettate l'ordine”. Partimmo alla volta di Gela che era buio. Verso la mezzanotte venimmo attaccati da una pattuglia di paracadutisti, e ci fermammo lungo la strada che va da Niscemi a Gela. Ad un certo punto mi accorsi che veniva avanti un gruppo di soldati a piedi. Erano quelli della MILMART addetti ai cannoni contraerei che avevano tirato via i gradi e le mostrine. Io gli chiesi: ”Dove andate?”. Quelli mi risposero “Abbiamo avuto l'ordine di scappare. E voi dove andate?” “Noi andiamo al fronte contro gli americani” gli risposi io, e allora scapparono chi di qua, chi di là. Io lo dissi subito al tenente; sa cosa mi rispose il tenente Marchegiani? “Causin, pensa a fare il tuo dovere come l'hai sempre fatto!” Mi chiuse la bocca, “Signorsì” gli risposi.  Arrivammo all'altezza dell'aeroporto di Ponte Olivo che era giorno. Gli americani erano già sbarcati ed avevano occupato il paese. Il Comandante della batteria era andato come al solito avanti per vedere il posto dove schierarci coi cannoni. Aveva destinato il punto dove andare, ma al di qua del paese di Gela, gli americani avevano già sistemato una batteria da 105 mm.. Tornò quindi indietro, ci diede i dati di tiro mentre eravamo ancora lungo la strada ed io li  segnai sul goniometro, che essendo piccolo tenevo sempre in tasca. Come siamo andati in posizione abbiamo sparato una salva di batteria, colpendo la batteria americana col primo colpo. Ricordo che l'aiutante mi raccontò che aveva visto l'inferno scatenarsi  sulla batteria nemica, soldati morti, cannoni rovesciati. Dopo continuammo a sparare per coprire l'avanzata della fanteria. Ma non appena intervenne la marina…..mamma mia….Ci arrivò addosso un inferno di fuoco e acciaio. I colpi ci passavano sopra, però qualcuno arrivò anche a 40-50 metri dalla nostra posizione, ricoprendoci letteralmente di terra, ma noi continuammo a sparare fino alle 10.30 – 11.00, e ricordo che il sole ci bruciava.

La sera del secondo giorno,  gli americani avevano mandato avanti sette carri armati lungo la strada statale 117. Io ero il quarto pezzo e mi trovavo vicino alla strada. Ricordo questi sette carri armati che venivano avanti. Il comandante ci ha chiamò tutti quanti i puntatori e ci disse:“Tu Causin prendi il primo, e tu (il primo pezzo) prendi l'ultimo, quell'altro lì il penultimo e l'altro il secondo”, sicché erano quattro quelli che noi dovevamo colpire, però ce ne sarebbero stati altri tre che non sarebbero stati colpiti. Lui ci disse “Quando io sparerò il colpo di pistola in aria voi sparate”. Li fece venire avanti fino ad una distanza di 80 metri, io sul cannocchiale li vedevo come da qui a lei, e ricordo che il primo colpo che sparai lo presi sotto, tra la terra ed il cingolo ed il carro armato si fermò. Poi il secondo colpo lo prese in pieno ed il carro s'incendiò. Subito sparai ad un altro; alla fine solamente due riuscirono a scappare. Ma poi dopo la marina…..mamma mia….. hanno tirato tante di quelle bombe. La terra sembrava ribollire; per fortuna che avevamo una posizione meravigliosa, cioè c'era un fosso fatto dal personale del campo di aviazione, e noi avevamo quindi come protezione una specie di argine e la bocca da fuoco era rasente. Però una granata della marina ci prese proprio sul paraschegge, e ricordo che il cannone saltò per aria, ed io che ero seduto sul sediolino, senza neanche accorgermene mi ritrovai per terra, tutti quanti pieni di terra, ed il cannone tornò giù di nuovo con un tonfo sordo, ed il tenente gridava “Fuoco, fuoco”, ed iniziammo a sparare a vista; c'erano tantissimi americani che venivano avanti di qua e di là, erano dappertutto e quando succedeva così, come avevamo imparato durante le istruzioni si sparava un colpo qua un colpo là, in maniera da tenere il nemico sempre in allerta, che non venisse avanti, e allora si sparava un colpo più vicino, un colpo più lontano. Riuscimmo comunque a respingerli.                     

Dopo venimmo a sapere che erano stati distrutti tutti i trattori per trainare i pezzi. Un colpo della marina aveva colpito una macchina che era carica di munizioni ed erano saltate tutte per aria. Il Ten. Marchegiani aveva telegrafato al comando che non avevamo più munizioni (erano rimaste solo 12 granate). Allora ricevette l'ordine di arrendersi e seguire il destino (il destino consisteva nel darsi prigioniero). Il Tenente ci disse “No. Prigionieri no. Allestire i cannoni per la marcia, cannoni in spalla e scappiamo”. E ricordo sempre, io ero il più robusto, mi mettevo due giacche sulle spalle, una a destra ed una a sinistra, legate con lo spago o con le cinghie, ed avevo il timone sulla spalla, pensi un cannone che pesava 12-13 quintali, e gli altri tiravano dai fianchi, c'erano due corde legate alle ruote dove c'era un gancio fatto apposta, trainando arrivammo fino a Niscemi. Avevamo fatto una decina di chilometri di marcia, durante i quali ci avevano attaccato diverse volte gli aeroplani; il terrore era quello. Io avevo paura degli aeroplani, perché ti capitavano addosso senza che te ne accorgessi, spuntando da dietro una collina, e ti falciavano. Gli apparecchi ci son venuti sopra 4-5 volte, facevano la picchiata e scappavano subito sopra. Ci buttarono spezzoni, ci mitragliarono, per fortuna io ricordo non avevamo avuto neanche un ferito. Il Signore ci ha benedetto su quel tragitto là.

D.: siete indietreggiati, siete arrivati a Niscemi e poi….

R.: arrivati a Niscemi credevamo di trovare tutto il nostro accampamento ed invece trovammo tutto vuoto, avevano portato via perfino le coperte, i pagliericci e la cucina; rimanemmo letteralmente senza niente. Non ricordo quante ore rimanemmo là. Ricordo però che ad un certo momento vedemmo issare la bandiera americana ai piedi del Castelluccio. Mi chiamò il Tenente Marchegiani e mi disse: ”Causin, vedi quella bandiera, buttala giù”. Sparai col mio cannone e buttai giù la bandiera al secondo colpo. Dopo arrivarono i camion nuovi con le munizioni, e partimmo in direzione di Caltagirone. Qui ci nascondemmo sotto le piante dei giardini pubblici, per proteggerci dagli aerei che giravano e ci davano la caccia; rimanemmo là quasi fino a sera. Appena fatto buio ricordo che andammo sul fianco di Caltagirone e ci piazzammo coi cannoni in cima alla collina. Il Tenente Barnabà, che era il mio comandante di plotone, aveva preso il comando perché il Tenente Marchegiani non c'era più perché era stato ferito al braccio da una pallottola di un aereo, ed era stato portato in ospedale, mi disse: ” Bruno vieni con me che andiamo a vedere dove piazzarci”. Andammo in cima alla collina e fu allora che vedemmo tutta la pianura piena di macchine che giravano e che venivano tutte verso Caltagirone. Si vedevano delle colonne che non finivano più, io non avevo mai visto una cosa del genere, coi binocoli poi che si vedeva meglio ancora. “Sono attrezzati meglio di noi dissi” allora al tenente, e questi mi rispose “purtroppo noi siamo delle formiche e loro sono i leoni”.

D.: in quel momento come vi siete sentiti?

R.: non avevo paura. Purtroppo la paura è la cosa peggiore che si può avere, ed io dissi al Tenente “Il Tenente Marchegiani ci ha sempre detto: ”Ricordatevi che la paura è il nemico n. 1, perchè una persona tradisce sé stesso e nello stesso tempo tradisce anche i compagni”. “E' vero” mi disse. “Vai giù e digli agli altri che vengano sopra”. Lui aveva già preso i dati di tiro; andammo sopra tirando i cannoni a mano su per la collina, e ricordo che cominciammo subito a sparare. Mamma santa!!!! tutte le macchine che saltavano per aria, le munizioni, fiamme, abbiamo sparato tutta la notte e la mattina eravamo veramente sfiniti. Il giorno dopo siamo partiti e siamo andati sul fronte di Catania. E là abbiamo sparato non proprio tanto, tutto diverso da quello che era successo a Gela. E dopo mi ricordo che continuavano a venirmi queste febbri, e perdevo l'appetito.

D.: secondo lei serve parlare ai giovani di quel periodo o è meglio dimenticare?

R.: bisogna ricordarle queste cose. Io le dico una cosa sola, dopo la guerra, dovevano fare come hanno fatto con la guerra mondiale ‘15-'18, perché io mi ricordo che quando andavo a scuola leggevo la storia d'Italia, i nostri soldati come hanno combattuto dal Piave al Grappa ecc.., invece noi siamo stati dimenticati da tutti, nonostante avessimo fatto il nostro dovere di soldati fino in fondo. Questo lo dico ad alta voce e non ho paura di essere smentito da nessuno.

Il Signor Causin fu fatto prigioniero il 15 agosto del 1943, in quanto ricoverato presso l'ospedale da campo di Castroreale Terme per febbre malarica. Fu trasferito presso il campo di prigionia n. 211 in Algeria, dove vi rimase fino al 30 giugno del 1945. Il Signor Causin è stato insignito della Croce al merito di Guerra per aver preso parte alla Campagna di Sicilia. Recentemente è stato promosso a titolo onorifico al grado di Caporal Maggiore. 


 
Bruno Causin - Reduce della Battaglia di Gela
 
Bruno Causin (il terzo da sinistra) con i compagni di reparto
 
Il libro su Gela di Fabrizio Carloni
 

Gela 1943. Intervista con

Fabrizio Carloni

a cura di Francesco Algisi

27 maggio 2011

Fabrizio Carloni , nato a Roma nel 1953, vive e lavora a Napoli. Laureato in Scienze Politiche, è storico e giornalista e collabora con i quotidiani del Mezzogiorno «Roma» e «Il Denaro» e con i periodici «Storia Militare», «Nuova Storia Contemporanea» e «Storia & Battaglie». Nel 2009, per i meriti acquisiti nell'ambito degli studi sulla Campagna d'Italia 1943-1945, gli è stato conferito il premio «Alexander B. Austin-Stewart G. Sale-William J. Munday Memorial Journalistic Prize». Autore di San Pietro Infine 8-17 dicembre 1943. La battaglia prima di Cassino (Mursia, 2003) e Il corpo di spedizione francese in Italia. 1943-1944 (Mursia, 2006), ha da poco pubblicato il volume intitolato Gela 1943 (Mursia, pagg.182, Euro 15,00), in cui ha portato alla luce le verità nascoste dello sbarco americano in Sicilia.

Dottor Carloni, a chi va ascritta la responsabilità della mancata ostruzione “con barricate o facendo collassare edifici con esplosivi” (cfr. pag. 24) delle strade di Gela in vista dello sbarco americano del luglio 1943?

  La fascia litoranea di tutte le aree che rientrano tra quelle per cui è ipotizzabile uno sbarco nemico - di norma vengono sgombrate per garantire una “zona di rispetto” che serve a tenere il campo di tiro libero - permette la predisposizione di campi minati e di ostruzioni ed ostacoli che la rendano di difficile transitabilità per il nemico. Queste misure non vennero attuate né in Sicilia, né in Corsica o Sardegna dalle truppe italiane che le presidiavano, per motivi legati alle difficoltà di riallocare la popolazione per mancanza di mezzi di trasporto, di benzina, lubrificanti, locali adatti, derrate alimentari. In più, all'atto dello sbarco in Sicilia, alla popolazione mancava la maggior parte del necessario e l'abbandono delle abitazioni e della terra che garantivano un tetto e il poco che serviva a sopravvivere avrebbero determinato disordini difficili da controllare. I tedeschi, dopo l'armistizio del settembre 1943, emisero decreti di sgombro delle linee di costa nelle regioni rimaste sotto il loro controllo.

Perché i ricordi degli avvenimenti del luglio '43 presso la cittadina di Gela sono andati distrutti (cfr. pag. 119 n.4)?

  Le amministrazioni pubbliche succedutesi a Gela e nella maggior parte delle cittadine siciliane dopo la fine della guerra, hanno cercato di far dimenticare gli avvenimenti dolorosi collegati allo sbarco. Si è sempre data grande enfasi alla “liberazione” da parte soprattutto degli americani, nei cui confronti, per la grande affinità che derivava dal fenomeno (massiccio in Sicilia) dell'emigrazione, ci si sentiva legati. Delle migliaia di civili derubati, vessati ed uccisi, dei bombardamenti indiscriminati e molte volte inutili si è parlato sempre molto poco e sempre meno. Alle cerimonie per l'anniversario dello sbarco del 10 luglio 1943, i rappresentanti ufficiali statunitensi sono sempre invitati graditi e speciali. A Gela, in particolare, per la vicinanza delle basi militari USA.

La resistenza opposta agli americani da alcuni adolescenti di Gela, che lanciarono “bombe a mano dal campanile della Chiesa Madre” (pag.56), fu un episodio isolato?

  La resistenza dei ragazzi a Gela è stata enfatizzata. Nel primo giorno dello sbarco, dovunque nelle aree investite dagli americani e, soprattutto, dagli inglesi, si verificarono episodi di resistenza da parte di civili. Molti sono documentati e riguardano soprattutto la discesa nella notte tra il 9 e 10 luglio di paracadutisti che furono affrontati da civili armati anche di fucili da caccia e che, in molti casi, guidarono i reparti italiani alla ricerca dei nemici sbandati ed in fase di riorganizzazione.

Come interpreta la “scelta politica” (cfr. pag. 129 n. 12) di non conferire la medaglia d'oro al v. m. al tenente carrista Angiolino Navari, immolatosi a Gela “per la maggiore grandezza e gloria della Patria”?

  Come ho evidenziato nel mio lavoro, molti intellettuali di Gela, sino agli anni Sessanta, guidati dal Prof. Nunzio Vicino, si sono dati da fare per commutare la medaglia d'argento alla memoria in una d'oro peraltro meritata. Angiolino Navari fu un eroe puro che è stato dimenticato anche nel paese di origine (Forte dei Marmi) per motivi di opportunità, perché combatté contro gli Alleati che di lì a poche settimane sarebbero diventati, anche in maniera ufficiale, i “liberatori”. È lo stesso motivo per il quale, dopo la testimonianza dei Carabinieri Francesco Caniglia ed Antonio Cianci, che hanno consentito la rivelazione della strage di Passo di Piazza, le istituzioni come il Ministero della Difesa  ed una parte dell'Arma dei Carabinieri hanno evitato che quella tragedia avesse qualsiasi seguito istituzionale. Il prof. Francesco Perfetti nella sua presentazione al mio lavoro ha evidenziato molto bene questi motivi di “Ragion di Stato”. Gli ergastoli comminati dal Tribunale militare di Roma agli assassini tedeschi della Padule di Fucecchio sanzionano comportamenti del tutto assimilabili a quelli tenuti dagli americani a Gela. Il Senatore Andrea Augello, in occasione dell'uscita in libreria mio ultimo libro, chiese dalle colonne del quotidiano romano Il Tempo l'apertura di un fascicolo da parte della Procura militare sugli avvenimenti di cui anche lui ha scritto per Mursia. Cosa è stato di quella istanza?